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FRA OSCAR E TRIBUNALI: L’ORIGINALITÀ DELLA SCENEGGIATURA RESTA (SEMPRE) NELL’OCCHIO DEL CICLONE

La notte degli Oscar, che ha calamitato l’attenzione degli appassionati di cinema lo scorso 10 marzo, ha rispettato i pronostici della vigilia. Al di là dei premi conferiti al miglior film, alle migliori interpretazioni e al miglior regista, è ormai da tempo indicato come un riconoscimento di grande peso quello dedicato alla sceneggiatura che, come da tradizione, si distingue in “original screenplay” e “adapted screenplay”. Come efficacemente spiegato da Octavia Spencer, chiamata dall’Academy ad annunciare i vincitori di entrambe le categorie insieme a Melissa McCarthy, entrambi i premi sono “tagli diversi della stessa stoffa”.

 

Tuttavia, dal punto di vista dei requisiti per concorrere nell’uno o nell’altro gruppo di titoli elegibili e, successivamente nominati, la questione si pone come di maggior interesse. In particolare, è stato al centro delle discussioni degli addetti ai lavori la nomination di Greta Gerwig e Noah Baumbach per “Barbie” nella categoria della sceneggiatura non originale. Infatti, tutte le altre sceneggiature della cinquina risultano basate sul contenuto di un libro: da Cord Jefferson, premiato per l’adattamento per il grande schermo di “Erasure” di Percival Everett in “American Fiction”, passando per Jonathan Glazer per “The Zone of Interest” dall’omonimo scritto di Martin Amis e Christopher Nolan per “Opphenheimer” dalla biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin, sino a Tony McNamara per “Poor Things” dal romanzo di Alasdair Gray. Non sarà sfuggito agli occhi attenti dei cinefili come, invece, la base per la nomination di Gerwig e Baumbach sia stata identificata semplicemente in “Barbie” di Mattel, ossia la società produttrice di giocattoli il cui successo si è largamente basato sulla produzione e distribuzione della celebre bambola e che, in maniera parodistica, ha un ruolo di peso nel film tramite, nello specifico, il personaggio interpretato da Will Ferrell.

 

In particolare, occorre evidenziare come non sia la natura dell’opera da cui è stato tratto il materiale adattato a rendere una sceneggiatura oggetto di inclusione nell’una o nell’altra categoria, quanto il fatto che la stessa sia identificata – o meno – come “derivative work”. Tale concetto identifica qualsiasi opera che sia basata su una o più opere tutelate dai diritti d’autore e possa essere tutelata tramite i diritti di copyright a propria volta. Nel caso di specie, tuttavia, l’elemento che rende la questione maggiormente complessa è il fatto che l’oggetto del diritto d’autore di titolarità di Mattel non sia un testo, ma una bambola. La questione pare essere stata risolta nella prospettiva in cui i cosiddetti “diritti di proprietà intellettuale esistenti” su cui la sceneggiatura è basata non si riferiscono ad una sola specifica tipologia di bambola, ma ad un personaggio oggetto di una molteplicità di storie e, conseguentemente, di un ventaglio di diritti di privativa. Fra di essi, non si classificano soltanto i diritti d’autore sull’opera creativa, ma altresì i diritti di privativa rappresentanti sia da marchi registrati sia da marchi non registrati.

 

La vicenda di Barbie costituisce soltanto un esempio evidente di una prassi ormai ampiamente consolidata che lega i titolari dei diritti d’autore su un personaggio agli studios che desiderano la produzione di un film su di esso, tramite un contratto di licenza che disciplini in maniera specifica quali utilizzi dello stesso possano essere proposti nell’ambito del corto o lungometraggio. A titolo di esempio, si ricordi come i personaggi di Barbie e Ken compaiano soltanto nel terzo film della saga di “Toy Story”, datato 2010, proprio a seguito della conclusione di un accordo fra Disney Pixar e Mattel, a seguito di un cambio di rotta della società californiana in merito alla concessione – sebbene temporanea – a terzi dei diritti di utilizzazione sul personaggio.

 

Il concetto di “derivative work”, tuttavia, ha creato nel corso del tempo ben più di una disputa. Lo scorso anno, ad essere nominati nella categoria di “Best Adapted Screenplay” sono state le sceneggiature relative a due sequels, ossia “Glass Onion: A Knives Out Mystery” di Rian Johnson e “Top Gun: Maverick” di Ehren Kruger, Eric Warren Singer, Christopher McQuarrie, Peter Craig e Justin Marks, rispettivamente relative al personaggio di Benoit Blanc, introdotto nel 2019 e interpretato da Daniel Craig, e di Pete “Maverick” Mitchell, che ha consacrato Tom Cruise nel 1986. Tuttavia, ci si è chiesti – e la stessa domanda è stata posta per “Barbie” – se il fatto di scrivere una nuova vicenda per un personaggio già esistente sia sovrapponibile all’adattamento per lo schermo di una storia già conosciuta dal pubblico tramite un’opera creativa integrata in un diverso supporto. Si tratta di un quesito che assume ancora maggiore rilevanza se si considera che, al contrario, nella categoria di “Best Original Screenplay” non rientrano esclusivamente i romanzi, ma altresì le storie aventi come protagonisti figure realmente esistite che non si basano su un testo biografico identificato nel dettaglio, come accaduto, quest’anno, con “May December” di Samy Burch e Alex Machanik.

 

Peraltro, è da ricordare come proprio “Top Gun: Maverick” sia stato altresì oggetto di una vicenda ancora in corso dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria. In particolare, gli eredi dell’autore Ehud Yonay hanno proposto dinanzi alla corte distrettuale del Central District della California azione legale nei confronti di Paramount Pictures Corporation. L’oggetto della contesa è la presunta violazione di copyright sull’articolo a firma di Yonay comparso su California Magazine in data 21 aprile 1983 ed intitolato “Top Guns”, i cui diritti di copyright sono stati oggetto di un accordo tra l’autore stesso e Paramount concluso nel medesimo anno. Secondo la ricostruzione degli attori, in conformità alla facoltà fornita agli autori (o, come nel caso di specie, agli eredi) dalla normativa statunitense sul diritto d’autore, gli stessi avevano posto fine alla licenza con effetti a partire dal 24 gennaio 2020, con la conseguente impossibilità per Paramount di esercitare qualsiasi diritto di utilizzazione sulla storia dopo quella data. Tuttavia, gli eredi di Yonay sostengono che “Top Gun: Maverick”, nelle sale nel 2022, sarebbe da considerarsi in ogni caso “derivative work” dal medesimo articolo e, dunque, lamentano la violazione dei diritti d’autore a seguito della produzione di un sequel senza la copertura di alcun nuovo accordo di licenza. Nonostante la decisione della corte di rigettare la “Motion to dismiss” proposta dal convenuto, lo stesso ha perseverato nel sostenere che qualsiasi similarità fra i materiali è dovuta soltanto a fatti non passibili di essere oggetto di diritto d’autore, ottenuti tramite sessioni di consultazione con la Marina, altresì affermando come gli attori stessero abusando dei propri diritti alla ricerca di un monopolio su tutte le storie relative al programma Top Gun della stessa Marina.

 

Le vicende appena evidenziate rispecchiano soltanto alcuni fra i molteplici punti di contatto che uniscono la proprietà intellettuale al mondo del cinema e che rendono ancor più interessante l’indagine di ciò che avviene dietro le quinte. Ancor più pregnante, peraltro, è l’appello che Cord Jefferson ha proposto sul palco del Dolby Theatre, incoraggiando le case di produzione a dare chances ai creativi, a cui anche un budget limitato può fornire l’“occasione della vita” non soltanto per veder riconosciuta la propria arte, ma altresì per avere una base economica su cui innestare le proprie future attività creative.