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L’equa royalty e il risarcimento del danno derivante da contraffazione – Cass. Civ. 24635/2021
La Corte di Cassazione si è recentemente espressa sul tema del risarcimento del danno derivante dalla contraffazione di un marchio, chiarendo la portata e le modalità di applicazione dell’art. 125 c.p.i., con particolare riferimento al rapporto tra il primo e il secondo comma.
La vicenda ha visto protagoniste due società operanti nel settore dell’abbigliamento. In particolare, l’attrice lamentava, di fronte al Tribunale di Torino, la contraffazione da parte della convenuta del proprio marchio nazionale registrato per contraddistinguere articoli di abbigliamento. Prescindendo dalla ricostruzione fattuale e giuridica della sussistenza della contraffazione, confermata in primo grado dal Tribunale di Torino, il punto focale della sentenza della Suprema Corte riguarda proprio il tema del risarcimento del danno e, in particolare, il ruolo assunto dal criterio equitativo avente ad oggetto “i canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso”, previsto dal secondo comma dell’art. 125 c.p.i.
Il Tribunale di Torino aveva infatti condannato la convenuta a risarcire il danno a seguito di accertamento della contraffazione, secondo il criterio dettato dall’art. 125 comma 2 c.p.i. La convenuta aveva, di conseguenza, proposto appello, lamentando che l’attrice non avesse in realtà fornito alcuna prova del danno subito, nonché l’eccessiva commisurazione dei danni rispetto al limitato uso del marchio.
La Corte d’Appello, accogliendo i motivi di gravame, ha condannato l’appellata a restituire 250.471,71 euro, ritenendo che, in effetti, quest’ultima non avesse fornito prova tramite fatti specifici del danno subito.
In materia di proprietà intellettuale e industriale, la norma di riferimento in tema di risarcimento del danno è l’art. 125 c.p.i., che sancisce, al primo comma, l’applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 1223, 1226 e 1227 del Codice Civile. Tali norme si riferiscono all’inclusione nel risarcimento del danno dei profili di danno emergente e lucro cessante, che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (art. 1223 c.c.), il ricorso alla valutazione equitativa del danno non suscettibile di essere provato nel suo esatto ammontare (art. 1226 c.c.) e la diminuzione del danno risarcibile per fatto colposo del danneggiato (art. 1227 c.c.). Il secondo comma del medesimo articolo prevede, invece, che “la sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano” stabilendo inoltre che, in tal caso, “il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso”.
L’aspetto più rilevante della vicenda in commento riguarda proprio il rapporto tra il primo e il secondo comma della disposizione citata e, più specificamente, l’applicabilità del secondo comma quale norma autonoma rispetto al precedente, in funzione di risarcimento “tipizzato” che prescinda dalla ricostruzione di stampo civilisitico del risarcimento del danno, nonché dalla sussistenza di un comprovato rapporto di causalità tra la condotta lamentata e il danno concretamente subito.
Il Tribunale di Torino infatti, riconoscendo in primo grado la sussistenza della contraffazione e il conseguente risarcimento del danno, aveva fatto applicazione proprio del criterio dell’equa royalty virtuale, ex art. 125 comma 2 c.p.i., il quale prevede che la voce del lucro cessante possa essere liquidata in una somma non inferiore ai canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto corrispondere al titolare del diritto qualora avesse ottenuto una licenza da quest’ultimo. Si tratta, quindi, di una precisazione del generale criterio di valutazione equitativa del danno, largamente utilizzata (nonostante sia stato osservato che tale criterio comporti una sistematica sottovalutazione del danno effettivamente subito) per far fronte a difficoltà di determinazione del danno e tale da attenuare l’onere probatorio del titolare del diritto.
La Corte d’Appello, ribaltando le conclusioni del Tribunale di primo grado, ha implicitamente ritenuto che l’attenuazione dell’onere probatorio derivante dall’applicazione del secondo comma dell’art. 125 c.p.i. riguardi esclusivamente la determinazione dell’ammontare del danno, ma che la sua applicazione non possa prescindere dalla considerazione dei principi civilistici espressamente richiamati al primo comma della medesima norma.
La Corte di Cassazione, dunque – accogliendo poi la ricostruzione della Corte territoriale – si è interrogata sulla questione fondamentale riguardante l’effettiva sussistenza di una deroga ai principi generali della responsabilità risarcitoria da fatto illecito, secondo cui il danneggiato dovrebbe provare esclusivamente la violazione, o se tale previsione debba essere ricondotta, invece, ad una mera “tecnica di semplificazione liquidatoria”.
A tale proposito i giudici hanno anzitutto confermato che gli orientamenti più recenti escludono che il danno da contraffazione sia in re ipsa, negando, dunque, che sia sufficiente per il titolare del diritto asseritamente leso provare semplicemente l’avvenuta violazione, ma che sia, invece, necessario anche provare il danno subito. Sulla base di questa premessa il Collegio ha ritenuto che l’art. 125 comma 2 c.p.i. non costituisca una deroga ai principi generali in tema di risarcimento del danno e onere probatorio, ma si sostanzi esclusivamente in una semplificazione probatoria attinente alla quantificazione del danno, giungendo ad esprimere il seguente principio di diritto: «Al riguardo, se è vero che la norma di cui all'art. 125, comma 2, c.p.i., può configurare una fattispecie di danno liquidabile equitativamente, mediante il criterio del "prezzo del giusto consenso", inteso quale parametro agevolatore dell'onere probatorio gravante sull'attore, è altresì vero che tale liquidazione non possa essere effettuata, come invoca la ricorrente, sulla base di un'astratta presunzione, ovvero attraverso un'automatica applicazione del predetto criterio. Deve pertanto ritenersi, come affermato dalla Corte d'appello, che anche tale forma di liquidazione presupponga l'applicazione degli artt. 1223 ss., c.c., e non possa dunque prescindere dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l'atto illecito e i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori” e che “dal combinato disposto delle due norme in esame può ragionevolmente desumersi che l'introduzione del criterio contemplato dal secondo comma risponda a finalità indubbiamente agevolatorie dell'onere probatorio gravante sull'attore che può equivalere ad un'attenuazione del medesimo onere, ma non può certo tradursi in un'assoluta esenzione dal rispetto dello stesso, in quanto tale interpretazione "atomistica" del secondo comma svuoterebbe di significato la ratio e la stessa lettera del primo comma».
Tale soluzione sarebbe, secondo la suprema Corte, confermata anche dalla successione letterale e logica tra i primi due commi dell’art. 125 c.p.i., che sarebbe espressione proprio dell’intento del legislatore di non “sganciare” il criterio dell’equa royalty dalla valutazione della sussistenza effettiva del danno, con conseguente necessaria applicazione dei criteri e delle regole dettate dal primo comma.